domenica 25 marzo 2012

La nuova/vecchia faccia del padrone


L’azzeramento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è una misura per rendere flessibile il mercato del lavoro, ma per rendere rigidi (fino al parossismo) il regime di fabbrica e la stretta sui ritmi di lavoro. Certamente nei prossimi mesi e anni ci saranno, uno a uno, o, meglio, quattro a quattro ogni quattro mesi, decine di migliaia di licenziamenti individuali per “motivi economici”.

Sappiamo già chi verrà colpito, perché da qualche mese i capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e gli operai che resistono all’intensificazione del lavoro, annunciando loro che, «appena passa l’abolizione dell’art. 18, sei fuori!». Così, se alla manifestazione della Fiom del 24 febbraio, su 50 mila partecipanti, almeno 40 mila erano lavoratori e lavoratrici della Fiom, possiamo essere sicuri, con uno scarso margine di errore, che, al ritmo di 12 all’anno per azienda, quei lavoratori verranno espulsi dal loro posto di lavoro ottenendo con il tempo quello che Marchionne ha realizzato in un colpo solo, cambiando nome allo stabilimento di Pomigliano e tenendovi fuori tutti i tesserati Fiom. E lo stesso avverrà con altre migliaia di lavoratori, già ben identificati, nella maggior parte delle aziende di altri settori. Se Barozzino, Pignatelli e La Morte, i tre operai della Sata di Melfi licenziati dalla Fiat per rappresaglia contro uno sciopero, ci hanno messo più di un anno per dimostrare le loro ragioni di fronte ai giudici e, nonostante l’ordine di reintegro, non viene loro concesso di rientrare in fabbrica, possiamo immaginare che cosa succederà con le decine di migliaia di lavoratori già in lista per essere licenziati individualmente “per motivi economici”. I quali, per dimostrare di essere stati oggetto di una discriminazione, e non di una esigenza “economica”, dovranno andare a cercare tra i loro compagni di lavoro qualcuno disposto a testimoniare in loro favore, sotto la minaccia di entrare così anche lui, nel giro dei successivi quattro mesi, nella lista degli esuberi per motivi “economici”.

Così diverse decine di migliaia di lavoratori andranno ad aggiungersi, grazie all’azzeramento dell’articolo 18, all’esercito dei disoccupati senza reddito che i tagli di bilancio, la riforma degli ammortizzatori sociali a costo zero e le crisi aziendali stanno moltiplicando nel nostro paese. Con in più il fatto che, se è quasi impossibile per un giovane trovare oggi un posto di lavoro, per i lavoratori e le lavoratrici di una certa età sarà ancora più difficile, e per quelli usciti dal loro impiego con un licenziamento individuale – cioè con le stimmate di una espulsione discriminatoria – il licenziamento equivarrà all’iscrizione in una lista di proscrizione. È una cosa che le persone di una certa età ricordano bene quando alla Fiat, prima dell’autunno caldo di quarant’anni fa, imperversava il regime imposto da Vittorio Valletta. Siamo ritornati là; anzi peggio, perché allora l’economia tirava mentre adesso non c’è alcuna speranza di tornare in tempi accettabili a una qualsiasi forma di ripresa della crescita. E soprattutto dell’occupazione. Ma l’uscita dalle aziende di alcune decine di lavoratori con posto fisso non apre certo le porte a nuove assunzioni, come è ovvio a qualsiasi persona che non sia in malafede. Semplicemente chiude per sempre davanti ai lavoratori licenziati le porte di un altro impiego. Perché la domanda di lavoro non c’è e non saranno certo le politiche economiche di Monti e della Bce a crearla (basta vedere quello che la Bce ha combinato in Grecia e in Portogallo, paesi solo di un anno davanti a noi nella corsa verso il disastro).

Ma quei lavoratori licenziati non avranno più né cassa integrazione (né ordinaria, né straordinaria, né in deroga), né mobilità, né “scivolo” verso il prepensionamento; solo una modesta somma di denaro e un anno di disoccupazione. Poi si ritroveranno per strada senza reddito e con nessuna possibilità di un nuovo lavoro: nemmeno d un lavoro precario: perché se mai ci sarà da assumere qualcuno in un call-center o in una cooperativa di facchinaggio, non andranno certo ad assumere un 40-50enne licenziato, quando è e sarà pieno di giovani più adatti a lavori del genere. Così, nel giro di qualche anno, assisteremo a questo rovesciamento dei rapporti intergenerazionali: se fino ad oggi molti dei giovani assunti in qualche forma di lavoro precario e intermittente hanno potuto contare sulla casa, la pensione, lo stipendio fisso o qualche altra forma di aiuto da parte dei loro genitori, nei prossimi anni saranno i lavoratori anziani (cioè ultracinquantenni) senza pensione né salario a dover contare sui redditi saltuario dei loro figli precari per sopravvivere.

Ma se questo è il panorama che ci aspetta fuori delle fabbriche e delle aziende, quello che si prospetta al loro interno è anche peggio. Perché là si vivrà sotto il ricatto permanente del licenziamento individuale “per motivi economici”; e se questo potrà colpire solo pochi lavoratori per volta – non più di dodici all’anno per azienda – funzionerà perfettamente da deterrente per tutti gli altri. Perché, con poche eccezioni, le imprese e l’imprenditoria italiana ormai impegnate a difendere i loro sempre più risicati margini di competitività contando esclusivamente sull’intensificazione dei ritmi di lavoro e la compressione dei salari, non hanno certo la cultura aziendale e la lungimiranza per farsi sfuggire un’occasione del genere: non avrebbero insistito tanto per l’abrogazione dell’art. 18.

Posto fisso vuol dire accumulo di esperienza, quel patrimonio aziendale – a patto di saperlo e volerlo valorizzare – che tante imprese italiane hanno sacrificato ai vantaggi offerti dall’ingaggio del lavoro precario e malpagato. L’azzeramento dell’articolo 18 è un invito a continuare su questa strada, perché rinunciare all’esperienza dei lavoratori anziani vuol dire ricominciare ogni volta da capo e mantenersi ai livelli tecnologici più bassi. Così, quello che non sono riusciti a fare Berlusconi, Maroni e Sacconi in 17 anni, Monti lo sta portando a termine in pochi mesi. Il piatto è servito e quello che resta da fare, prima che passi in Parlamento il cosiddetto decreto sul mercato del lavoro – in realtà, sulla disciplina di fabbrica e l’ampliamento dell’ “esercito industriale di riserva” – ma anche dopo, se sarà approvato, è continuare ad opporsi senza se e senza ma.

La posta in gioco e troppo alta e anche coloro che in azienda non ci sono ancora, non ci sono più, o non ci saranno mai, dovrebbero capirlo e agire di conseguenza. Quale che ne sia l’esito, questa mossa di Monti e Fornero deve diventare per tutti il simbolo dell’ipocrisia, della malafede e della pochezza di questa campagna di governo.

di Guido Viale (Il Manifesto)

giovedì 1 marzo 2012

Io sto con chi "se l'è cercata"




Se l’è cercata è il commento sulla tragedia di Luca Abbà che con svariati ornamenti e orpelli circola nei giornali amici di Berlusconi, o di sua proprietà, e nei programmi televisivi di ‘approfondimento’. “Uno che sale su un traliccio non è un eroe – ha scritto ad esempio Sallusti – è uno che mette in pratica cose cretine ed illegali. Se l’è cercata e l’ha trovata, nel caso c’è pure l’aggravante dell’età, 37 anni, che rende il tutto oltre che tragico pure patetico. Abbà è vittima di se stesso”. Queste parole sono la sintesi di un modo di pensare tipico della storia secolare dell’Italia dei servi. Se l’è cercata, lo diceva la plebe di Napoli quando assisteva all’impiccagione di Eleonora de Fonseca Pimentel, una delle figure più fulgide della Rivoluzione Napoletana del 1799. “Un po’ se l’è cercata”, ha detto Giulio Andreotti (settembre 2010) a proposito di Giorgio Ambrosoli assassinato l’11 luglio 1979 perché aveva scoperto e denunciato le attività criminali di Michele Sindona. Se l’è cercata, è il giudizio pronunciato a voce bassa nei bar tutte le volte che una persona degna è sconfitta, o assassinata. Se l’è cercata, commentano molti maschietti italiani quando leggono o apprendono di una donna violentata. La logica di questo sragionamento è sempre la medesima. I responsabili del crimine, come nel caso di Sindona, o coloro che hanno spinto a un gesto disperato sono assolti da ogni responsabilità, mentre la vittima è degradata al rango di un folle mosso da pensieri deliranti o da brama di protagonismo. È l’odio che spinge a pensare così, quell’odio tenace che nasce dall’invidia che persone vili provano nei confronti di chi dimostra una morale che li pone più in alto rispetto a loro.
Anche gli individui più ferocemente legati ai propri privilegi, spesso conquistati con il servilismo, avvertono per le persone moralmente ferme un sentimento di ammirazione. Ma poiché non sanno o non vogliono imitarle, le odiano e non vedono l’ora di assistere alla loro caduta, a terra, per potersi finalmente sentire superiori: ‘io sono vivo e so curare meglio di voi i miei interessi’ . Su un punto i sostenitori del se l’è cercata hanno ragione. Le persone che lottano, soffrono e si sacrificano per degli ideali non sono affatto dei temerari, dei dissennati o dei vanagloriosi che gettano la vita alle ortiche per avere il plauso degli schiocchi. Sono persone che meditano sul significato e sulle conseguenze delle proprie azioni. Giorgio Ambrosoli sapeva benissimo cosa stava facendo. Sapeva di rischiare la morte. Ma sapeva anche che era suo dovere andare fino in fondo per inchiodare Sindona alle sue responsabilità e per dimostrare che anche i più potenti criminali possono essere sconfitti e dare in questo modo l’esempio per altri. Analoga consapevolezza dei doveri nei confronti della propria coscienza e delle conseguenze delle proprie azioni ispirò il comportamento di Carlo Rosselli quando, rinchiuso al confino, rifiutò di scrivere al duce per ottenere la libertà.
Lo stesso, per le medesime ragioni, fece Ferruccio Parri: “Io non sono un Pinco Pallino qualunque, uno dei tanti che possa dire: compatite un giovinotto inesperto che non sapeva quel che si facesse, ora mi sono stufato di stare sotto aceto, lascia-temi andare che starò bravo. La coerenza per me non è una parola vana, un suono vuoto di senso. […] Sono disposto ad ogni sacrificio pur di non compiere mai nessun atto che sconfessi la mia opera, il mio passato, che giudichi contrario al mio onore, cioè alla mia legge di vita”. Martin Luther King era ben consapevole di quanto odio il suo impegno per i diritti civili suscitava nei razzisti americani, ma non per questo si fermò. Quelli che se la sono cercata a volte falliscono per poca prudenza; ma quando vincono, purtroppo di rado, il mondo diventa un luogo più umano, per tutti, anche per quelli che non cercano nulla e accettano tutto. Quelli che disprezzano chi se l’è cercata, poche volte falliscono, per la semplice ragione che non perseguono fini difficili, e quando vincono, come spesso avviene, il mondo diventa più disumano, soprattutto per chi non vuole vivere da servo. Salire su un traliccio dell’alta tensione è il gesto di chi ritiene di non avere altri modi efficaci di combattere contro qualcuno di molto più forte. I disperati per cause di giustizia meritano sempre rispetto. Per questo io sto con quelli che se la sono cercata e se la cercano e detesto con tutto me stesso chi li deride. Mi auguro che la tragedia di Luca Abbà serva almeno a rafforzare in Italia la lotta di chi vuol difendere, con metodi pacifici e civili, quel poco di bellezza ambientale (che la Repubblica secondo la Costituzione deve tutelare) contro un’opera costosa e inutile, voluta da chi misura il progresso in termini di velocità dei mezzi di comunicazione e non in termini di cultura e di dignità civile.

Maurizio Viroli [Il Fatto Quotidiano]


Aggiungiamo in coda lo splendido intervento di Travaglio di ieri a "Servizio Pubblico", chiarissimo ed esplicativo della situazione Tav-No-Tav