mercoledì 31 marzo 2010
L'editoriale (Parte 2)
martedì 30 marzo 2010
Salary cup e calcio
Compaiono ormai con preoccupante regolarità articoli che descrivono come il mondo del calcio sia ad un passo da una crisi economica senza precedenti.
Se si cercano sulla rete i club che hanno i maggiori debiti appaiono nomi altisonanti, a cominciare dal Manchester United che vanta un debito superiore ai 723 milioni di euro. La squadra ex nonchè vice campione della Champions League (il più importante trofeo continentale) è però in buona compagnia; altre corazzate come il Chelsea del magnate russo Abramovich, il Manchester City dello sceicco Al Mubarak e il Real Madrid hanno debiti per oltre 400 milioni di euro.
Vien da chiedersi quanto di regolare ci sia in tutto questo.
Le campagne faraoniche che vengono intraprese da determinati club europei ogni estate non sbilanciano il corretto funzionamento dei campionati?
Quale comportamento avere con le squadre aventi il bilancio pesantemente in rosso?
Lo sceicco annoiato di turno che decide di comprare una squadra, risanarne i debiti precedenti con le banche e spendere e spandere finchè non trova un passatempo migliore contribuisce a spettacolarizzare di questo sport?
Di certo c'è che viviamo in una società con un'idea completamente sbagliata di sport. Non vi è più onore per il secondo posto, conta solo vincere e per farlo alcuni presidenti sono disposti a tutto (l'ultima campagna acquisti del Real Madrid ne è un esempio). Un campionato o una coppa vinta da una società in ginocchio a causa delle folli spese estive merita di essere festeggiata?
L'equilibrio tra le varie compagini accresce lo spettacolo e un miglioramento della qualità globale del gioco costituisce la vera essenza dello sport: il divertimento.
Il primo modello che viene in mente per portare tale equilibrio è quello utilizzato negli sport americani.
Il concetto è abbastanza semplice e si basa sul salary cup.
Nella sostanza ogni squadra per pagare gli stipendi ai propri giocatori non può superare una determinata cifra, il tetto salariale appunto, che è uguale per tutti. Tale tetto salariale viene imposto dalla Lega anno per anno in base anche se non soprattutto a fattori economici generali e il suo superamento comporta delle sanzioni che in America prendono il nome di luxury tax.
Poniamo ad esempio che il salary cup sia 50 milioni di euro. Con questi 50 milioni di euro il Real Madrid deve riuscire a pagare gli stipendi di tutti i giocatori e non solo dei vari Cristiano Ronaldo, Kakà, Raul, Benzema, Casillas e via dicendo. La violazione del salary cup comporta come detto il pagamento di una luxury tax la quale nel sistema americano prevede che per ogni dollaro con cui si eccede il tetto salariale occorre versarne il doppio alla Lega. Nell'esempio ciò significa che se il Real Madrid necessita di 90 milioni di euro per pagare gli stipendi ai propri giocatori deve versare alla Lega (90-50)*2=80 milioni di euro, con una perdita notevole per le casse della società.
Ad onor del vero va detto che tale modello si applica alla perfezione in un sistema che non prevede ad esempio retrocessioni e dove lo scopo principale è la ricerca dell'equilibrio (si pensi al Draft dove i giovani con maggiori prospettive che escono dal college vanno alle squadre con i record peggiori).
Dall'altra parte dell'oceano inoltre si usa la formula dello scambio dei contratti dei giocatori (la cosiddetta trade) appunto per non permettere al proprietario non curante della luxury tax di avere i giocatori migliori.
Sempre tornando all'esempio del Real Madrid il trasferimento di Cristiano Ronaldo dal Manchester United alla squadra spagnola utilizzando la formula americana non potrebbe avvenire per 93 milioni di euro. Se lo stipendio di Cristiano Ronaldo è di 10 milioni di euro affinchè avvenga lo scambio occorre che il Manchester acquisisca uno o più contratti dal Real Madrid per un totale che si avvicini ai 10 milioni percepiti dal portoghese. In pratica non si può vendere per risanare il bilancio a meno che una squadra non sia gia sotto il salary cup e in quel caso puo acquistare direttamente il contratto del giocatore senza dover riequilibrare il tutto (una sorta di premio per chi rispetta il tetto).
La presenza di numerose regole rende tale sistema complesso e sicuramente non esente da difetti ma una riforma che tenga conto di alcuni aspetti del salary cup americano combinato ad esempio con l'obbligo di utilizzare i vivai può essere un primo significativo passo verso il cambiamento.
Umberto Simola
lunedì 29 marzo 2010
Guardando meglio...
La domanda da tre milioni di dollari è: chi guiderà ora la battaglia sul clima?
Questa settimana i leader politici e le imprese si riuniscono nel tentativo di rinnovare l’incerta sfida del mondo sul riscaldamento globale. Ma si trovano di fronte la battaglia per risollevare la nube di scetticismo che è calata sugli studi climatici e per proporre una nuova prospettiva.
Alcuni dei più facoltosi finanziatori del pianeta si riuniranno a Londra mercoledì per discutere del fastidioso problema economico: come raccogliere un trilione di dollari per lo sviluppo mondiale. Tra gli incaricati di raggiungere questo obbiettivo scoraggiante ci sarà anche Gordon Brown, le amministrazioni di diverse banche centrali, il filantropo miliardario George Soros, l’economista Lord (Nicholas) Stern e Larry Summers, il principale consulente economico del Presidente Obama.
Come schieramento di esperti è formidabile: ma allora lo è anche l’obbiettivo prefissato dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Effettivamente, i più grandi finanzieri del mondo sono stati chiamati per escogitare un sistema per raccogliere almeno 100 miliardi di dollari in un anno per i prossimi decenni, denaro che sarà utilizzato per aiutare i paesi più poveri del pianeta ad adattarsi ai cambiamenti climatici.
“I prezzi che paghiamo per le nostre merci non riflette una chiave di costi: il danno che fa la loro produzione sul sistema climatico planetario”, ha detto Bob Ward, dell’istituto di Ricerca Grantham sul cambiamento climatico presso la LSE (London School of Economics and Political Science). “Abbiamo bisogno di trovare un modo per ricavare un profitto da quelli che provocano il danno e poi usano quei soldi per finanziare lo sviluppo delle nazioni così da poter proteggersi dai peggiori effetti del riscaldamento globale.
E per aumentare i fondi del gruppo consultivo di finanziamento sul cambiamento climatico ha dichiarato che prederà in considerazione ogni cosa –ponendo imposte sul trasporto aereo e marittimo internazionale, sui mercati del carbonio in espansione, con l’introduzione di tasse anche sulle transazioni finanziarie, e con l’utilizzo della speciale valuta di riserva del Fondo Monetario Internazionale. […] “La finanza è un prerequisito per un accordo sul clima”, ha dichiarato venerdì Rajendra Pachauri, presidente del gruppo intergovernativo nell’ONU sui cambiamenti climatici. “I paesi in via di sviluppo sono molto sensibili verso questo problema. Le trattative falliranno senza un sicuro e consistente finanziamento in atto”.
Suona familiare, e così dovrebbe essere: queste nuove discussioni segno di un nuovo interesse per il clima, dopo che si è concluso solo tre mesi fa a Copenhagen il summit delle Nazioni Unite, che non è stato in grado di raggiungere una trattativa per controllare le emissioni di diossido di carbonio. […] “Viviamo in un mondo nel caos più totale. Gli Stati Uniti stanno ridendo, ma non c’è alcuna certezza che i paesi ricchi non vogliano tagliarla fuori e andare avanti da soli in questa battaglia. È il caos” ha detto Martin Kohr, direttore del centro sud, portavoce dell’organizzazione inter-governativa dei paesi in via di sviluppo con sede a Ginevra. Si tratta di uno scenario deprimente per le nuove trattative di mercoledì a Londra, ma non significa che tutto è perduto. “Se gli Stati Uniti si impegnano a limitare le proprie emissioni solo di poco, questo sarebbe un enorme miglioramento rispetto alla posizione presa dall’America in precedenza”, ha dichiarato l’istituto di ricerca Grantham. "E anche se può sembrare scoraggiante parlare di raccogliere un trilione di dollari per le nazioni in via di sviluppo, dobbiamo notare che ciò rappresenta un investimento che è di gran lunga inferiore a quello che è stato necessario per salvare il sistema finanziario mondiale nel 2008”.[…]
The Guardian, traduzione: Giulia Pradella
LINK ALL’ ARTICOLO
http://www.guardian.co.uk/environment/2010/mar/28/un-climate-change-meeting-london
domenica 28 marzo 2010
L'era di Googocracy
L'editoriale (Parte 1)
giovedì 25 marzo 2010
L'accordo sul nucleare tra Usa e Russia
Gli Stati Uniti e la Russia sono sul punto di trovare la chiave per un trattato sulle armi nucleari, il Presidente Obama ha fatto presente che la sua Amministrazione si è focalizzata nuovamente sulla politica estera in seguito alla violenta battaglia sulla riforma sanitaria. Un funzionario del Cremlino, parlando sotto anonimato, ha dichiarato che la notte scorsa le due parti si erano accordate su “tutti i documenti” per un nuovo accordo riguardo la riduzione dei loro arsenali atomici, rinnovando lo storico trattato del 1991 sulla riduzione strategica delle armi, chiamato Start (Strategic Arms Reduction Treaty). La Repubblica Ceca ha annunciato un incontro tra il Presidente Obama e il Presidente Medvedev, organizzato a Praga per la firma del trattato, accrescendo le speranze di un accordo entro Pasqua. I funzionari americani erano più cauti, dichiarando che l’incontro era “vicino, ma non ancora giunto ad una conclusione”. Robert Gibbs, segretario stampa della Casa Bianca, ha detto che Obama e Medvedev devono ancora discutere e concludere la formulazione del trattato. “Ma siamo molto vicini ad un accordo” ha detto ed ha poi aggiunto: “Vorrei anticipare che quando avremo qualcosa da firmare sarà a Praga”. Ieri il Presidente Obama ha trascorso più di un’ora alla Casa Bianca dando istruzioni al senatore John Kerry, Presidente Democratico dei rapporti con l’estero nel Senato, ed il Senatore Richard Lugar, del comitato Repubblicano. Entrambi vorrebbero giocare il ruolo più importante nella ratifica americana del trattato.
Un nuovo trattato Start sarebbe un trionfo per la diplomazia americana e per Hilary Clinton, segretario di Stato, che la settimana scorsa ha visitato Mosca per parlare del Medio Oriente e di un nuovo accordo strategico sulle armi.
Due alti funzionari degli Stati Uniti hanno dichiarato che ci sono ancora problemi tecnici da risolvere per un annesso al principale trattato, ma hanno previsto che non ci sono ostacoli per portare a termine l’accordo entro un paio di giorni. Mikhail Margelov, il Presidente della commissione per gli affari esteri della Camera del Parlamento Russo, ha dichiarato che “un compromesso politico” è stato raggiunto sul legame nel trattato tra la difesa missilistica e la riduzione delle testate nucleari. Gli Stati Uniti hanno spinto per questo difficile accordo, il 12 Aprile il Presidente ospiterà un vertice sul nucleare a Washington. La scelta di Praga è simbolica in quanto l’anno scorso è stata sede dell’intervento di Obama, in cui aveva delineato la sua ambizione di creare “un mondo senza armi nucleari”. Il nuovo trattato di 20 pagine sarebbe un passo verso quest’obbiettivo, impegnando entrambe le parti a tagliare le scorte di testate tra 1,500 e 1,675 ciascuno entro sette anni e riducendo il numero dei missili a raggio lungo ad un massimo di 1,100. Oggi gli Stati Uniti hanno 2,200 testate operative e la Russia 2,790. Questa settimana ha portato fortune alterne al Presidente Obama. La sua controversa riforma sanitaria è stata approvata dopo un’aspra battaglia, ma i rapporti con Israele sono un po’ in una fase di stallo sulla questione dei nuovi insediamenti, e la visita fatta dal Primo Ministro israeliano, Binyamin Netanyahu, si è conclusa con degli incontri freddi. Il rinnovo dello Start potrebbe essere per Obama il primo successo significativo nella politica estera ed un grande colpo per la sua presidenza. Potrà anche aumentare gli sforzi Americani per frenare le ambizioni nucleari dell’Iran – argomento sul quale Mosca sembra molto più a sostegno degli Stati Uniti.
martedì 23 marzo 2010
La campagna elettorale ha ancora diritto d’esistere?
Mi rendo conto che l’argomento non è dei più facili da affrontare e sicuramente andrà incontro a molte critiche, ma penso che dovremmo interrogarci sulla reale opportunità d’esistenza di quell’immane dispendio di denaro ed energia (sia attive che passive) che alla vigilia di ogni elezione vediamo prendere vita sui manifesti, nei comizi o sui volantini che da ogni parte ci piovono addosso.
Il punto non è solamente lo sperpero di denaro o il bombardamento comunicativo che noi tutti siamo costretti a sopportare, ma un vizio di forma intrinseco dell’intero meccanismo.
Se c’è bisogno di una così imponente macchina elettorale si sa bene che, paradossalmente, a decidere le elezioni saranno i cosiddetti “indecisi” piuttosto che i “decisi”.
Questo, come è facile immaginare, penalizza soprattutto chi cerca di tenersi informato sul mondo politico e si crea una propria opinione che poi andrà ad esprimere attraverso il voto, di qualsiasi colore politico esso sia.
L’importante è avere elettori consci del ruolo fondamentale che nei, di solito, due giorni elettorali vanno a ricoprire all’interno del proprio stato e della propria società.
Se non abbiamo questo, non abbiamo nemmeno un popolo sano, non abbiamo una classe dirigente eletta per sincero volere dei cittadini e la democrazia si riduce a un termine buono soltanto per nascondere guerre o gonfiarsi la bocca nel paragonarsi ad altre nazioni.
Il voto è diventato una via di mezzo fra un lusso di cui non ci ricordiamo – e quindi non onoriamo - nemmeno l’origine e una scusa per fare due passi verso le urne la domenica.
Possibile che i cittadini di un paese che si considera moderno e civilizzato vogliano essere trattati come un gregge da dirigere periodicamente verso uno o l’altro macello?
Ricordo che mi fece molta impressione una cosa che vidi in Francia: era il periodo delle elezioni Europee del 2009 e man mano che passavamo in macchina i vari paesini, come i centri più grossi, c’erano in media 5/6 manifesti elettorali: sempre quelli, nello stesso ordine. Non c’erano squinzie col berrettino con volantini coloratissimi, non c’erano manifesti versione Godzilla su muri, camper, dirigibili ecc.. non c’era nulla; solo un manifesto per partito con il nome del candidato, il simbolo di partito e uno slogan. Come dire: «Questi sono quelli che si presentano, scegli TU».
Vabbè, non dimentichiamoci che i Francesi sono quelli che hanno votato Chirac quando arrivò al ballottaggio con Le Pen nel 2002, e lo contestarono subito dopo per fargli capire che lo avevano votato solo perché non volevano assolutamente un presidente nostalgico dei trascorsi fascisti nella collaborazionista Francia di Vichy. Insomma gente che si interessa della persone che devono poi governarla e che quindi si informa prima di andare a votare.
Per tornare al Bel Paese, dire che gli elettori sanno ciò che stanno facendo mettendo la “X” su una scheda di cartone chiusi dentro un baracchino, penso sia un po’ troppo romantico. Quindi che fare?
Nacque proprio da quel viaggio in Francia l’idea, un po’ provocatoria un po’ no, di istituire un “patentino del votante”.
Per averlo sarebbe sufficiente sostenere un piccolo esame di storia (almeno dell’ultimo secolo) ed educazione civica (cosa che fa abbastanza ridere oggi come proposta dato che la materia in questione viene tolta da quasi tutti gli istituti).
Penso che una cosa simile già scremerebbe un’ottima fetta di “votanti della domenica” che da sempre scelgono per tutti senza rendersene conto.
Perché continuare a farci portare tutti da una mandria di gonzi quando c’è gente che davvero si interessa alla politica e vorrebbe che ciò che pensa fosse rappresentato nel proprio governo per una volta?
Facendo una pesa di vantaggi e svantaggi penso che la risposta sia più che ovvia, ma forse un sistema in cui il cittadino vota ciò che pensa e sa difendere la sua idea di voto si veramente riservato ai paesi moderni e civilizzati.
Fabrizio Ruffini
Notizie correlate
mercoledì 17 marzo 2010
L'uso Orwelliano della Storia
L’uso pubblico della storia non è un fenomeno che nasce nel mondo contemporaneo, anzi si può dire appaia nel momento stesso in cui si ragiona su tematiche storiche. L’argomento sembra però assumere una gravità e una importanza rinnovata proprio nell’oggi, nel momento in cui l’uso pubblico della storia interviene in modo attivo nel dibattito pubblico per definire un nuovo senso comune civile. Peccato che nei Mass Media, assistiamo quotidianamente ad una vera e propria violenza nei confronti della Storia, con narrazioni e interpretazioni che spesso sfiorano la disinformazione. Vittima di sé stessa, Clio viene puntualmente tirata per la giacchetta dalle singole forze politiche, che cercano di modificare il passato a proprio vantaggio nel tentativo di legittimarsi nel presente.
Cassa di risonanza di queste vere e proprie guerre della memoria sono i giornali, dove, accanto a giornalisti storici seri, vedono la loro comparsa dei mestieranti ambigui, spesso colti da servilismo acuto verso il padrone di turno, dove la storia viene trattata come scoop, come ricerca della novità ad ogni costo. Questi signori, vestiti i panni di novelli profeti di verità, cercano di costruire un loro discorso storico nel tentativo di far passare un messaggio revisionistico molto pericoloso e inquietante. Tutti voi avrete presente la violenta campagna mediatica, che trova posto sulla carta stampata e in tv, contro la memoria storica della Resistenza e della costituzione repubblicana. Riassumiamo brevemente: questi autori revisionisti affermano che il senso di eventi quali il fascismo, la resistenza, la storia repubblicana siano stati imbrigliati all’interno di una vulgata, ovvero di un sistema di potere culturale in cui un elite intellettuale (leggasi storici accademici) costruisce un’immagine mitica di questi fatti storici. Loro invece, giornalisti storici dal cuore impavido, sarebbero coloro che svelano la coltre d’inganno di questa vulgata, offrendo col loro lavoro squarci di verità.
Un ottimo esempio è costituito dalla storia personale di Giampaolo Pansa. In origine ottimo storico di professione, ad un certo punto decide di dedicarsi al mondo giornalistico e letterario, scrivendo saggi divulgativi e romanzi. Negli ultimi anni cerca di far luce sugli aspetti più bui della Repubblica: un lavoro però ripetitivo, già affrontato da altri storici accademici prima di lui, che dunque non produce delle vere novità nell’ambito della ricerca scientifica. Eppure i suoi articoli riescono a diventare dei casi editoriali: vengono giudicati dai mass media come lavori rivoluzionari, capaci di spaccare il muro di omertà costruito dal discorso storico accademico. In realtà i libri di Pansa si inseriscono in un progetto molto più generale di delegittimazione dei fondamenti identitari della Repubblica, nel tentativo di usare la storia come arma politica. La speranza è che la società civile sviluppi quegli anticorpi critici necessari per smascherare questo uso orwelliano della storia che ormai sembra essere diventato un virus pericolosissimo.
Federico Giona
sabato 13 marzo 2010
Tutti uguali? Basta!
E’ uno dei luoghi comuni più diffusi degli ultimi anni, ma cosa vuol dire precisamente essere un antipolitico?
Spesso il sentimento di rifiuto della politica (soprattutto di quella recente) è ricondotto al movimento imbastito da Grillo o ai vari movimenti che non hanno altro obbiettivo se non l’antiberlusconismo.
Purtroppo, invece, è più plausibile far risalire questo tipo di pensiero alla poca informazione e ad un certo rifiuto preconcetto verso una politica che, proprio per il disinteresse dei cittadini ha avuto carta bianca per compiere le più immani, passatemi il termine, “porcate” che il nostro paese abbia mai visto.
Un serpente che si mode la coda quindi? Direi proprio di si; abbiamo una politica egoista ed attenta ai bisogni dei “prescelti” proprio perché i comuni cittadini non hanno alzato la voce quando era ora, ma anzi si sono bevuti tutta la rassicurante favola della nascente “Berluscoland”.
Se la classe politica di oggi è composta da mafiosi, corrotti o smidollati (e le future, paradossalmente, potrebbero essere anche peggiori) è perché i valori della politica si sono avvicinati sempre più a quelli del marketing e dell’economia. Quando Berlusconi nel ’94 si presentò dicendo che avrebbe condotto l’Italia come una delle sue aziende diceva il vero, e tutti hanno preso questa affermazione come una cosa positiva; vi ricordate qual era il ragionamento più diffuso? “Se è diventato un imprenditore di successo vuol dire che le sue aziende le gestisce bene, quindi se gestisce l’Italia così dovrebbe funzionare”. Niente di più stupido e controproducente.
In realtà Berlusconi diceva il vero perché un imprenditore per avere successo deve fare il più possibile i propri affari, e farli soprattutto a discapito dei concorrenti; ecco spiegato perché il Paese ora è più simile ad una compagine di Fininvest piuttosto che ad uno stato libero, e il parlamento sembra sempre più una segreteria di partito con, ahimè, poteri ben maggiori.
Gli italiani, e neppure la maggioranza a quanto pare, ci hanno messo però quindici anni per cominciare a comprendere le insidie che si celavano dietro a quell’affermazione ed ora, con l’antipolitica, si rischia di perdere definitivamente il contatto con ciò che in assoluto riguarda più da vicino la nostra vita e la vita di chi condivide la nostra nazionalità.
All’inizio di questo articolo si è parlato di Grillo: bene, anche Grillo pare aver capito che l’antipolitica oltre a non portare da nessuna parte è molto pericolosa e spesso controproducente, per questo sono nati i movimenti “5 stelle” da lui patrocinati, e la cosa è più che giusta, se non ci si ritrova in qualche corrente politica bisogna cercarne una propria, difendere le proprie idee e combattere piuttosto che chiudersi e lasciar fare agli altri, cosa che, come visto, favorisce un solo tipo di politici. Vivere nell’ignoranza in senso etimologico, cioè ignorando ciò che gli altri decidono per noi, è come salire su di un taxi e dire all’autista di portarvi dove preferisce, sia esso una persona seria o uno squilibrato.
Non importa dunque in cosa si crede e cosa si vota, ma bisogna farlo coscientemente e dopo una buona informazione. Dire che tutti i politici sono uguali tradisce una profonda disattenzione verso i propri interessi ed il mondo in cui si vive.
Fabrizio Ruffini
venerdì 12 marzo 2010
L'assalto all'EXPO 2015
Quando ci si trova all’inaugurazione di un grande edificio pubblico, di un monumento o di un nuovo supermercato, ciò che resta più impresso nella mente sono la gioia collettiva, la perfezione dell’organizzazione e la festa che accompagna l’evento. Difficilmente ci si ferma a pensare a cosa ci sia stato dietro quell’apertura, chi ci abbia messo i soldi e come verranno divisi i guadagni.
Questa tecnica del far vedere sempre e solo il lato positivo di un’opera è una delle più grandi specialità di Berlusconi; esempio lampante è il ponte sullo stretto di Messina o, più recentemente, l’EXPO 2015 che si terrà a Milano.
E’ di oggi la notizia che il Premier, quasi come una sorta di presa per i fondelli di chi, questa mattina, era in piazza a manifestare per il proprio posto di lavoro o per le condizioni in cui versa la scuola pubblica, ha annunciato di aver trovato i fondi per finanziare l’EXPO e che i lavori potranno quindi cominciare senza intoppi. Notizia tanto bella quanto superficiale.
Molti ignorano che dietro agli appalti per la costruzione della grande esposizione universale sia in atto una bagarre politico/economica non di poco contro tra gli stessi partiti di maggioranza e l’elite imprenditoriale milanese.
Ancor più grave è che, oltre agli scontri fra soggetti legali, si inserisce anche un terzo personaggio pronto a dare battaglia per godere il più possibile del lauto banchetto imbandito per questo megacantiere: la Mafia.
In particolare i gruppi più attivi nel milanese sono riconducibili alla ‘ndrangheta, che in quella zona ha da oltre trent’anni lo zampino in quasi tutti i cantieri più importanti, come emerso dalle decine d’indagini svolte negli anni, tra cui quella riguardante l’autostrada Milano-Brescia e i lavori di costruzione della linea ferroviaria veloce (TAV).
Sull’infiltrazione mafiosa nel cantiere dell’ EXPO milanese è stata aperta anche un’inchiesta conclusasi prematuramente per una fuga di notizie che non ha reso possibile la continuazione delle indagini; rimane ora da vedere se i soldi promessi oggi da Berlusconi ci sono veramente o no, e se la magistratura potrà intervenire nuovamente per supervisionare gli appalti milionari e la chiara e corretta prosecuzione dei lavori.
Fabrizio Ruffini