22 anni dopo la strage nel porto
di Livorno nessuna sentenza ha individuato un colpevole, ma il dibattito sui troppi punti oscuri della
vicenda resta aperto. Oggi un nuovo filone d’inchiesta voluto dai figli del
comandante del Moby Prince e un film cercano di riaccendere il dibattito sulla
più grave sciagura marittima italiana dalla fine della seconda guerra mondiale.
Esistono due tipi di cronaca
nera: quella nera come la morte e quella nera come l’oscurità. Ci sono poi
quelle tragedie che riescono persino a legare questi due tipi di buio. Quella
del Moby Prince è una delle tante storie italiane che a leggerle sembra di
scorrere il copione di un film spionaggio, uno di quei film in cui chi sa tace
e chi non sa, per quanti sforzi faccia, non riesce mai a scoprire la verità.
Le sentenze dei vari processi sul
disastro del traghetto della Moby tenutisi dal ’95 ad oggi non hanno mai
individuato alcun errore umano nell’accaduto ed ogni speranza di fare luce
sugli episodi di nebbia ad navem, di
testimoni scomparsi e di tracce radar secretate sembrerebbe doversi spegnere
per sempre. D’obbligo il condizionale perché una nuova commissione d’inchiesta
fatta avviare dai famigliari delle vittime, con i figli del comandante Ugo
Chessa i testa, potrebbe portare ad una nuova verità dopo tante bugie e
depistaggi.
Il Moby Prince era un traghetto
che la notte del 10 aprile del 1991 lasciò il porto di Livorno in direzione di
quello di Olbia ma che, quando ancora non era uscito dalle acque del porto
toscano speronò una petroliera, l’Agip Abruzzo, conficcandosi nella cisterna
numero sette di quest’ultima e trasformandosi, così, in un inferno di fiamme e
lamiere roventi che portò ad una morte orribile 140 delle 141 persone a bordo.
Gli interrogativi su cosa accade
realmente quella notte nelle acque scure del porto di Livorno sono ancora
troppi: si deve ancora capire, ad esempio, perché nella quasi totalità delle
testimonianze raccolte si parli di cielo limpido e visibilità ottimale, mentre
nelle carte del processo si insista a citare una fantomatica nebbia che sembra avvolgesse
solo la petroliera e non le altre imbarcazioni. Bisogna poi spiegare
l’incomprensibile ritardo dei soccorsi che, nonostante la breve distanza tra il
porto ed il punto in cui le due navi entrarono in collisione, non raggiunsero
il luogo dell’incidente se non dopo alcune ore, tanto da non individuare
nemmeno il Moby Prince che nel frattempo, a motori ancora funzionanti e timone
bloccato, aveva preso il largo disegnando un infernale girandola di fuoco.
Affiancato al porto di Livorno,
inoltre, si trova Camp Darby, una base americana che in quei giorni era
impegnata nelle operazioni di stoccaggio delle armi che tornavano dall’Iraq dove
si era conclusa la prima guerra del Golfo. Gli armamenti arrivavano in porto
attraverso delle navi civili militarizzate, quindi, sotto diretto controllo
dell’esercito statunitense. Le tracce dei radar della base e le immagini satellitari,
però, non esistono, o meglio non possono essere utilizzate perché secretate.
Nel 2009 i figli del comandante
Chessa hanno fatto richiesta ufficiale al presidente Obama perché rendesse
pubblici questi dati che sicuramente potrebbero aiutare a comprendere meglio
ciò che accadde in porto quella notte, ma ad oggi non è pervenuta alcuna
risposta.
Ad aggiungere mistero al mistero
arriva, poi, il caso di Fabio Piselli, un esperto in investigazioni, che
durante un’indagine all’ambasciata americana di Roma scoprì per caso alcuni
fatti interessanti utili al processo Moby Prince. L’uomo venne aggredito da
quattro persone incappucciate e chiuso in una macchina alla quale dettero
fuoco. Piselli riuscì miracolosamente a salvarsi e sarà a disposizione dei
legali delle vittime per proseguire la nuova inchiesta.
Il momento storico-politico in
cui si inscrive la tragedia del Moby Prince è particolarmente complesso ed è
forse anche per questo che la verità resta lontana: il muro di Berlino era
caduto da pochi anni e i Balcani erano oramai sull’orlo della guerra fratricida.
l’Italia, dal canto suo, era scossa dalle stragi di mafia, guerra in Somalia e
segreti di stato. La strage di Ustica era ancora un grande punto di domanda e
lo sarebbe presto diventato anche l’omicidio della giornalista Ilaria Alpi,
morta inseguendo un traffico d’armi che, proprio dal porto di Livorno, arrivava
a Mogadiscio.
Oggi, nell’anno del ventiduesimo
anniversario della strage, un film-documentario del giovane regista fiorentino Manfredi Lucibello ripercorre i fatti
cercando di riaccendere il dibattito sulla più grave sciagura marittima
italiana dalla fine del secondo conflitto mondiale. Il titolo del film è
“Centoquaranta – La strage dimenticata” ed uscirà a giugno. La realizzazione
della pellicola ha fatto emergere, tra gli altri, l’ennesimo mistero sulla
vicenda del Moby Prince; Lucibello ha infatti denunciato al Corriere della Sera
che «Il tribunale di Livorno non ha più le
registrazioni audio del processo sulla Moby Prince, quelle che valgono a
livello legale. Esistono le trascrizioni delle testimonianze ma non le
registrazioni audio. Abbiamo fatto due richieste tramite avvocato per ottenerle,
non ci hanno mai ufficialmente risposto ma ci hanno fatto capire che non ci
sono. Scomparse».
Infine, proprio nel giorno
dell’anniversario della tragedia, il neo eletto presidente del Senato Pietro
Grasso ha dichiarato: «Il ricordo di
quella tragedia è ancora vivo e indelebile in tutti noi […] come cittadino e
come presidente del senato, rinnovo la mia vicinanza e il mio affetto alle
famiglie colpite, esprimendo il mio più profondo cordoglio per quanti persero
la vita in quell’incidente. Le istituzioni e la società civile hanno il
dovere di rimanere al fianco di chi è stato colpito da questo tragico evento
facendo chiarezza su quanto avvenuto». Grasso ha inoltre annunciato l’apertura
di una commissione d’inchiesta sulle stragi misteriose e ancora irrisolte che
hanno martoriato il nostro paese.
Fabrizio Ruffini