sabato 28 settembre 2013

Il Paese ostaggio



Massimo Giannini nel suo commento post annuncio delle dimissioni dei ministri del Pdl dice che "si sperava in un dialogo [...] invece Berlusconi preferisce affondare, e come sempre vuole affondare portando con se il paese". L'ex Ministro Gelmini, su Rai 3, dice che le dimissioni erano nell'aria da diverso tempo e, successivamente, riattacca il disco rotto della giustizia politicizzata anti Berlusconi. Ora, senza dilungarsi troppo sui mille aspetti che metterebbero in ridicolo le affermazioni dell'onorevole Gelmini, come ad esempio l'uso politico della giustizia fatto da Berlusconi per eliminare avversari e personaggi scomodi, vorrei analizzare la situazione "dall'alto". Il problema vero dell'avere i mezzi d'informazione schierati o semplicemente interessati allo scontro di basso livello è che non il cardine della discussione, il punto chiave viene confuso in una nebbia di "finocchi in parlamento", di "proteste delle sostenitrici di Berlusconi", di "liti da salotto tv". La verità in tutto ciò è che uno dei paesi più importanti d'Europa e del mondo, sta attraversando una crisi profonda e di difficile soluzione in tempi brevi; e lo fa con il fardello di un ricatto costante da parte di Berlusconi a causa delle sue vicende giuridiche.

Il paese è di fatto ostaggio di Silvio Berlusconi. Non esiste precedente nel mondo occidentale di una situazione simile. Quando si parla di aumento dell'Iva (punto sul quale il Pdl cercherà di far leva nei prossimi giorni per spiegare la crisi di governo) o di Imu ricordatevi sempre di cosa si sta discutendo: "il governo va avanti se si riforma la giustizia/se si concede la grazie/se si fa un'amnistia che possa giovare a Silvio Berlusconi". 

Di per se, purtroppo, la cosa non sarebbe così grave (nel senso che sappiamo benissimo di chi si componga l'entourage del Pdl) ma la cosa davvero schifosa è il servilismo e la vigliaccheria di chi dovrebbe arginare questa situazione e questi deliri. Sentire Napolitano che "prende in considerazione di concedere l'amnistia" è una cosa che getta nello sconforto e che infanga il nome, l'onore e la storia della Repubblica Italiana. Solo prendere in considerazione una eventualità simile fa capire come tutta la classe politica italiana abbia il terrore di Berlusconi e preferisca assoggettarcisi incondizionatamente piuttosto che sfidarlo apertamente.

Le dimissioni dei ministri del Pdl arriva, tra l'altro, all'indomani del viaggio del Premier Letta negli Stati Uniti dove era andato per convincere gli investitori d'oltreoceano a portare i propri capitali in un Paese dalla ritrovata stabilità. Questo conferma una volta di più quanto interessi a Berlusconi delle sorti della nazione. Concluderei, dato che lo stato di sudditanza del Paese nei confronti dell'imprenditore Berlusconi assomiglia a quello imposto ad un prigioniero e che la posta in gioco è talmente alta da assomigliare a quella in ballo durante una guerra, con un brano preso dalla Convenzione di Ginevra:

"Il prigioniero di guerra non è legato ai suoi carcerieri da alcun dovere di fedeltà, ma anzi, come soldato, è spesso vincolato al dovere di cercare di combattere per il proprio paese". A questo, spesso, si aggiunge infatti che "E' diritto e dovere di ogni buon soldato architettare e tentare la fuga".  

Fabrizio Ruffini

giovedì 26 settembre 2013

Tutti a bordo per il Mongol Charity Rally 2014!




Il prossimo luglio parte dei realizzatori de "L'Altro Pensiero" assieme ad altri ragazzi provenienti dalle più varie realtà parteciperanno al Mongol Charity Rally 2014. La gara (non competitiva) prevede un viaggio all'insegna dell'avventura con partenza da varie città europee e con destinazione la capitale della Mongolia Ulan-Bator.

Oltre a rappresentare una grande impresa personale, questo rally permette a giovani di tutto il mondo di portare il loro contributo alle popolazioni del paese centro-asiatico con donazioni di beni di conforto e soprattutto del veicolo utilizzato per il viaggio che viene messo all'asta una volta giunti a destinazione.

Ma il nostro team farà di più! Il nome scelto è "Spaghetti Eastern", durante il tragitto, che ci vedrà toccare 14 nazioni diverse su un percorso di oltre 11.000 km, approfitteremo delle soste per cucinare degli spaghetti per chiunque vorrà avvicinarsi al furgone per fare due chiacchere e provare la nostra cucina. 

Oggi è solo il giorno degli annunci, quindi non ci dilungheremo nei dettagli che arriveranno nei giorni/mesi futuri. Per ora vi invitiamo a unirvi a noi su Facebook cliccando qui così da avere tutte le news in breve tempo, di seguire il blog e la pagina facebook de "L'Altro Pensiero" e di scriverci per consigli o informazioni! A presto!!!

Fabrizio Ruffini


lunedì 15 luglio 2013

Il sudtirolese che abbatteva i confini




Meno di un mese fa un giovanissimo politico altoatesino guadagnava le prime pagine dei giornali nazionali italiani per alcuni pesanti e infelici giudizi espressi nei confronti dei tedeschi. Lo scandalo per questo diciannovenne commissario del Popolo della Libertà durò giusto il tempo delle successive, ma ben contestualizzate, pubbliche scuse e la questione morì come era nata. Con molta delusione notai che in tutta questa vicenda non era stato fatto neanche un accenno ad Alexander Langer, un politico suditirolese che aveva pagato in prima persona il proprio tentativo di conciliare un dialogo tra italiani e tedeschi nel Trentino Alto Adige.

Il rifiuto dell'etnia. Quello di Alexander Langer è un nome che non salta fuori spesso nella contemporaneità, essendo sparito dalle cronache nel 1995, anno della sua morte. Nato a Vipiteno in provincia di Bolzano, egli riuscì a trasportare con successo in politica, nella quale fu attivo dalla fine degli anni '70, le proprie idee di convivenza tra gruppi differenti, idee che partivano proprio dalla peculiare situazione altoatesina in cui era cresciuto. Alexander considerava infatti il far parte di una comunità mista essere una risorsa e non una debolezza; e gran parte dei suoi sforzi fu diretta a cercare una via di convivenza pacifica nella diversità: cresciuto in una famiglia di lingua tedesca, ma educato fin dall'asilo negli ambienti italiani, era del resto era una testimonianza vivente che questo era possibile. Nel clima tesissimo delle rivalità tra gruppi tedeschi e italiani del Trentino Alto Adige della fine del secolo scorso, dove le bombe degli estremisti erano cominciate ad esplodere dalla metà degli anni '50, la posizione conciliatrice di Langer rappresentava una novità coraggiosa. Quando, in occasione dei due censimenti della popolazione del 1981 e del 1991, la Repubblica Italiana chiese ai propri cittadini risiedenti in quella regione di esprimere la propria appartenenza etnico-linguistica (ladina, tedesca o italiana), Langer si rifiutò di firmare un modulo volto a rafforzare le divisioni e le separazioni, pagando caro questo gesto. La sua carriera di insegnante fu temporaneamente interrotta e, nel 1995, la sua candidatura a sindaco di Bolzano venne respinta a causa di quella firma mancante. Pacifista convinto, si adoperò con parecchie energie ed iniziative per una fine pulita del conflitto Yugoslavo, del quale poteva comprendere meglio di altri le ragioni e le menzogne, ma il moltiplicarsi di molte sconfitte e di altrettante delusioni lo spinsero al suicidio all'età di 49 anni.

Una natura improntata al dialogo. La specialità di Alexander Langer era di rifiutare i confini, di violarli, di saltarli, di qualsiasi natura essi fossero. Avendo rigettato prima qualsiasi tipo di schedatura etnica, riuscì a costruire un ponte personale anche tra credenti e non credenti, avvicinandosi al Cattolicesimo (mentre il padre era ebreo) ma rimodellandolo, come ad esempio nell'esprimere il proprio appoggio al movimento abortista. Fortemente attivo sia dentro che fuori dalle istituzioni, critico fin da giovane all'adesione cieca ad un particolare partito politico, come invece succedeva nell'Italia di allora, Alexander rifiutava qualsiasi forma associativa che non fosse “mista” al proprio interno. Conscio che i confini, di qualsiasi natura essi fossero (religiosi, politici, etnici, linguistici, ecc.. ), non costituiscono affatto validi strumenti di orientamento perché falsano la realtà e la sua complessità, relegandola in forme semplici e prefissate, sostenne sempre la ricchezza data dall'inclusione di più culture diverse alla politica. I suoi interlocutori preferiti erano quelli che lui definiva i “disertori” o i “traditori” di una determinata etnia o parte, le persone cioè incapaci di innalzare barriere tra un “noi” e un “loro”.

Il messaggio di “Alex” oggi. In un'Europa come quella di oggi profondamente scossa dalla crisi, il messaggio di Alexander Langer è più che mai attuale. Sotto i colpi dei tagli alla spesa pubblica e della disoccupazione, troppe persone hanno trovato rifugio nella chiusura totale a tutto ciò che può diventare un pericoloso concorrente nella corsa alle scarse risorse disponibili. Sotto diverse forme sta riprendendo forza e vigore quel germe che Alex definiva come “la forma istituzionalizzata e collettiva di egoismo”, ovvero il nazionalismo. Esistono poi ancora forti tensioni ovunque tra gruppi differenti che coabitano gli stessi spazi: a Cipro tra greci e turchi, nel Belgio tra fiamminghi e valloni, negli Stati dei Balcani (tra i quali la Croazia ha appena fatto il suo ingresso nell'U.E) le questioni si sono (non) risolte con una separazione forzata della Yugoslavia, e infine in tutti quei Paesi dove una forte immigrazione ha rimodellato spesso la visione dell'identità collettiva in senso fortemente esclusivista. 

Non penso si possa trovare collante migliore per questa Europa che cade a pezzi del messaggio di Alex, un messaggio del resto molto semplice, ma non per questo banale. E la forza di questa mite visione stava proprio, allora, nella biografia stessa di Alex, la cui vita era stata spesa a saltare ogni barriera imposta. Fa dunque profonda tristezza vedere che alcune nuove generazioni crescono sorde a questa eco proprio in quella terra mista dove Langer era cresciuto e che aveva costituito il punto di partenza di tutta la sua riflessione.

Gabriele Proverbio

domenica 16 giugno 2013

Diretta video 24/24 dalle strade di Istanbul


sabato 27 aprile 2013

Moby Prince, 22 anni di nebbia italiana





22 anni dopo la strage nel porto di Livorno nessuna sentenza ha individuato un colpevole,  ma il dibattito sui troppi punti oscuri della vicenda resta aperto. Oggi un nuovo filone d’inchiesta voluto dai figli del comandante del Moby Prince e un film cercano di riaccendere il dibattito sulla più grave sciagura marittima italiana dalla fine della seconda guerra mondiale.

Esistono due tipi di cronaca nera: quella nera come la morte e quella nera come l’oscurità. Ci sono poi quelle tragedie che riescono persino a legare questi due tipi di buio. Quella del Moby Prince è una delle tante storie italiane che a leggerle sembra di scorrere il copione di un film spionaggio, uno di quei film in cui chi sa tace e chi non sa, per quanti sforzi faccia, non riesce mai a scoprire la verità.

Le sentenze dei vari processi sul disastro del traghetto della Moby tenutisi dal ’95 ad oggi non hanno mai individuato alcun errore umano nell’accaduto ed ogni speranza di fare luce sugli episodi di nebbia ad navem, di testimoni scomparsi e di tracce radar secretate sembrerebbe doversi spegnere per sempre. D’obbligo il condizionale perché una nuova commissione d’inchiesta fatta avviare dai famigliari delle vittime, con i figli del comandante Ugo Chessa i testa, potrebbe portare ad una nuova verità dopo tante bugie e depistaggi.

Il Moby Prince era un traghetto che la notte del 10 aprile del 1991 lasciò il porto di Livorno in direzione di quello di Olbia ma che, quando ancora non era uscito dalle acque del porto toscano speronò una petroliera, l’Agip Abruzzo, conficcandosi nella cisterna numero sette di quest’ultima e trasformandosi, così, in un inferno di fiamme e lamiere roventi che portò ad una morte orribile 140 delle 141 persone a bordo.

Gli interrogativi su cosa accade realmente quella notte nelle acque scure del porto di Livorno sono ancora troppi: si deve ancora capire, ad esempio, perché nella quasi totalità delle testimonianze raccolte si parli di cielo limpido e visibilità ottimale, mentre nelle carte del processo si insista a citare una fantomatica nebbia che sembra avvolgesse solo la petroliera e non le altre imbarcazioni. Bisogna poi spiegare l’incomprensibile ritardo dei soccorsi che, nonostante la breve distanza tra il porto ed il punto in cui le due navi entrarono in collisione, non raggiunsero il luogo dell’incidente se non dopo alcune ore, tanto da non individuare nemmeno il Moby Prince che nel frattempo, a motori ancora funzionanti e timone bloccato, aveva preso il largo disegnando un infernale girandola di fuoco.

Affiancato al porto di Livorno, inoltre, si trova Camp Darby, una base americana che in quei giorni era impegnata nelle operazioni di stoccaggio delle armi che tornavano dall’Iraq dove si era conclusa la prima guerra del Golfo. Gli armamenti arrivavano in porto attraverso delle navi civili militarizzate, quindi, sotto diretto controllo dell’esercito statunitense. Le tracce dei radar della base e le immagini satellitari, però, non esistono, o meglio non possono essere utilizzate perché secretate.
Nel 2009 i figli del comandante Chessa hanno fatto richiesta ufficiale al presidente Obama perché rendesse pubblici questi dati che sicuramente potrebbero aiutare a comprendere meglio ciò che accadde in porto quella notte, ma ad oggi non è pervenuta alcuna risposta.

Ad aggiungere mistero al mistero arriva, poi, il caso di Fabio Piselli, un esperto in investigazioni, che durante un’indagine all’ambasciata americana di Roma scoprì per caso alcuni fatti interessanti utili al processo Moby Prince. L’uomo venne aggredito da quattro persone incappucciate e chiuso in una macchina alla quale dettero fuoco. Piselli riuscì miracolosamente a salvarsi e sarà a disposizione dei legali delle vittime per proseguire la nuova inchiesta.

Il momento storico-politico in cui si inscrive la tragedia del Moby Prince è particolarmente complesso ed è forse anche per questo che la verità resta lontana: il muro di Berlino era caduto da pochi anni e i Balcani erano oramai sull’orlo della guerra fratricida. l’Italia, dal canto suo, era scossa dalle stragi di mafia, guerra in Somalia e segreti di stato. La strage di Ustica era ancora un grande punto di domanda e lo sarebbe presto diventato anche l’omicidio della giornalista Ilaria Alpi, morta inseguendo un traffico d’armi che, proprio dal porto di Livorno, arrivava a Mogadiscio.

Oggi, nell’anno del ventiduesimo anniversario della strage, un film-documentario del giovane regista fiorentino Manfredi Lucibello ripercorre i fatti cercando di riaccendere il dibattito sulla più grave sciagura marittima italiana dalla fine del secondo conflitto mondiale. Il titolo del film è “Centoquaranta – La strage dimenticata” ed uscirà a giugno. La realizzazione della pellicola ha fatto emergere, tra gli altri, l’ennesimo mistero sulla vicenda del Moby Prince; Lucibello ha infatti denunciato al Corriere della Sera che «Il tribunale di Livorno non ha più le registrazioni audio del processo sulla Moby Prince, quelle che valgono a livello legale. Esistono le trascrizioni delle testimonianze ma non le registrazioni audio. Abbiamo fatto due richieste tramite avvocato per ottenerle, non ci hanno mai ufficialmente risposto ma ci hanno fatto capire che non ci sono. Scomparse».

Infine, proprio nel giorno dell’anniversario della tragedia, il neo eletto presidente del Senato Pietro Grasso ha dichiarato: «Il ricordo di quella tragedia è ancora vivo e indelebile in tutti noi […] come cittadino e come presidente del senato, rinnovo la mia vicinanza e il mio affetto alle famiglie colpite, esprimendo il mio più profondo cordoglio per quanti persero la vita in quell’incidente. Le istituzioni e la società civile hanno il dovere di rimanere al fianco di chi è stato colpito da questo tragico evento facendo chiarezza su quanto avvenuto». Grasso ha inoltre annunciato l’apertura di una commissione d’inchiesta sulle stragi misteriose e ancora irrisolte che hanno martoriato il nostro paese.

Fabrizio Ruffini

venerdì 26 aprile 2013

Eccidio di Pozza ed Umito




In occasione del 28° anniversario della liberazione (in ritardo a dire il vero) vi proponiamo il racconto di uno dei tanti eccidi nazi-fascisti avvenuti in Italia e dimenticati dalla storia nazionale. Parlare di questi tragici avvenimenti, ricordare e tramandare le storie è l'unico modo per non rendere vane le tante morti del passato avvenute per il nostro futuro. W la resistenza!
Nella seconda guerra mondiale sui Monti della Laga Partigiani Italiani e Slavi danno vita ad una Resistenza contro l'invasore Tedesco che culmina con l'eccidio di Pozza ed Umito nell'inverno del 1944.
Dopo l’8 settembre 1943, furono aperti i campi di concentramento, soldati slavi e montenegrini, si rifugiavano sulle montagne di Umito e di Pozza. Proprio in quelle località si stavano già raggruppando i partigiani. 
Il capo della banda dei partigiani rifugiati a Pozza e Umito era il capitano dei Carabinieri Ettore Bianco. Agli slavi e montenegrini si erano aggiunti due inglesi e un americano. Questi furono aiutati dalle donne: erano  per lo più madri fidanzate sorelle di soldati italiani sperduti per il mondo.L’invernata del 43-44 fu terribile e il 16 marzo 1944 lassù a Pozza, i partigiani avevano organizzato regolari turni di guardia, con gli uomini all’erta nei punti strategici. C’era tanta neve in giro si pensava perciò che con quel tempo non si potesse arrischiare nessuno a salire sulla montagna. Invece, fu organizzata la spedizione composta in gran parte da tedeschi. 
A mezzanotte, da Acquasanta, partirono tedeschi e fascisti divisi in tre colonne per accerchiare Pozza ed Umito. Piombarono sulla località nel silenzio quando  la gente dormiva. Morirono dodici partigiani italiani, diciassette slavi, due inglesi, un americano, venti tedeschi. I tedeschi sistemarono i loro morti in un deposito e lo fecero saltare. Si portarono via solo il corpo del comandate, legato a un trono di albero, insieme ai prigionieri. Quando i tedeschi furono costretti alla ritirata per l’avanzata degli alleati, in Acquasanta avvennero episodi di violenza conseguenti a tutto quello che era successo.

Fonte: Associazione "La terra delle meraviglie"

sabato 30 marzo 2013

Bandiera bianca la vogliamo? NO!





La peggiore generazione uscita dal Pci gestisce la peggiore pseudo-sinistra di sempre, dal crollo del muro e soprattutto dalla discesa in campo di Berlusconi è stata fatta una demonizzazione assurda di tutti i valori della sinistra "estrema" da parte del centro-destra che unita al massacro del mondo dell'istruzione ha abbassato la media di ragionamento generale fino al livello "Bar Sport". 

Perché chi si definisce di sinistra deve sempre cercare di assomigliare il più possibile all'immagine accettabile di sinistra proposta dalla destra invece che portare avanti le proprie idee con coraggio? Come pensano di attirare a sé le persone (soprattutto i giovani) distaccandosi sempre dai simboli classici della sinistra che (piaccia o no) fanno presa sulla gente? Passano il tempo a rassicurare sul fatto che non hanno più nulla a che fare con i simboli del passato, a "non farsi chiamare compagni" e a sbraitare risposte oscene a domande oscene nei talk show politici non capendo di fare perfettamente il gioco prima di Berlusconi e poi di Grillo. Oltre ovviamente a far spaccare internamente un soggetto politico come il PD nel quale si ritrovano più versioni della stessa parte politica.

Possibile che non vediate che chi sbraita contro le "terribili ideologie" è proprio chi fonda il proprio strapotere proprio sulle ideologie? Chi, come Berlusconi, scende in piazza per tenere un discorso citando: le toghe rosse, la costituzione da cambiare, i marò e i comunisti in mezzo ad un oceano di "libertà" ripetuto per tutta la durata del comizio non crea forse un'ideologia? Per non parlare poi di chi lo sostiene da anni mischiando ai precetti appena citati la religione cattolica, i valori della famiglia e compagnia cantante.
Quando poi la parola va al PD i valori fondanti della sinistra vengono tocchicciati, sfiorati delicatamente o totalmente omessi. 

La politica non dovrebbe essere una partita di calcio nella quale schierarsi con un colore di maglia o con l'altro, però negli ultimi vent'anni è stata portata a questo, allora fatevi furbi, smettetela di auto-flagellarvi che il venerdì santo è passato e invece che smacchiare giaguari tingete un po' più vermiglia quella bandiera.

Fabrizio Ruffini

martedì 26 febbraio 2013

Un'elezione credibile-incredibile-credibile



Ho dovuto attendere l'esito di queste elezioni per tornare a scrivere sul blog. Questo voto è stato "credibile-incredibile-credibile". Credibile perché era prevedibile che il PD, con la sua complessa e pesante macchina politica, non convincesse il 51% degli italiani a votare per lui. Incredibile per la folle percentuale di italiani che hanno votato ancora per Berlusconi; e di nuovo credibile per il risultato del Movimento 5 stelle.

Perché questa premessa? Perché queste elezioni sono state a tutti gli effetti vinte (o perse a seconda delle aspettative) da tutti e tre questi schieramenti. Quello però che non può essere accettato è il solito atteggiamento da partito "bello e irraggiungibile" adottato dal PD da un anno a questa parte, perché pensavo (speravo) che le elezioni milanesi e la vittoria di Pisapia (che il PD rivendica ma che in realtà ben poco ha a che fare con il Partito Democratico), ma a quanto pare il PD ha insito nel DNA la volontà di non considerare gli outsiders e, soprattutto, non capire che non sono affatto outsiders ma soggetti politici in corsa per lo stesso risultato e spesso più determinati. In questo caso, tra l'altro, il m5s non era un outsider dell'ultima ora ma un fenomeno in grande espansione che con delle buone analisi sarebbe stato possibile comprendere e contrastare. Ma l'irraggiungibilità divina dei dirigenti del PD, troppo distanti dalle logiche di internet e dei nuovi media ha sempre fatto da paraocchi nei confronti di quattro "scalmanati" e  "novizi della politica" che però a conti fatti si trovano ad essere la terza forza del paese ed il primo partito alla camera.
Assieme all'incapacità del Partito Democratico di capire queste cose, abbiamo assistito per tutta la giornata di ieri a sproloqui di politologi e voci "autorevoli" che da tutte le tv e da tutti i siti internet si interrogavano sulle alleanze del movimento 5 stelle, sulle sue capacità politiche e sul perché così tanti avessero fatto "voto di protesta" (considerare il 25% come un voto di protesta fa capire quanto i giornalisti abbiano seguito l'evoluzione del m5s), ottenendo così il solo risultato di alimentare le simpatie per questo movimento da parte di chi ha votato altro o di chi non ha votato affatto e rafforzare le convinzioni di quanti già ne fanno parte.

Passando all'aspetto incredibile di questa tornata elettorale, penso di poter ribadire, oggi più che mai, quanto scritto in uno dei primi post di questo blog: il diritto di voto non può essere un diritto innato. Non è veramente possibile che dopo oltre vent'anni di Berlusconismo quasi il 30% degli italiani creda ancora a certe balle, mi piacerebbe togliermi la curiosità di quanti elettori che vivono in affitto abbiano votato per il PDL in cerca di un rimborso IMU... Non è altresì possibile che la gente non si renda conto di che responsabilità comporti l'azione di votare. Quindi, signori, fatevi un bell'esame di coscienza perché rigettare sempre nel baratro il paese dopo che gente onesta di ogni estrazione politica e sociale cerca di denunciare a tutto il popolo italiano, ogni giorno, le malefatte di un gruppo di ladri, corrotti e corruttori non è veramente più accettabile.

Per concludere vorrei fare un'ultima breve analisi sulla terza forza uscita vincitrice da queste elezioni: premettendo che personalmente non apprezzo i fanatismi e le masse che si spostano da destra a sinistra, da sinistra a destra o, come in questo caso, dal nulla alla politica pensando di punto in bianco di essere detentori della verità assoluta, non posso che ammirare quanto fatto da Beppe Grillo. Sì, perché da militante politico quale sono sempre stato, so bene che convincere centinaia di migliaia (se non milioni)  di persone a scendere in piazza per parlare/sentir parlare di politica non sia affatto semplice, anzi! Quindi un grandissimo merito va riconosciuto a chi è riuscito a realizzare tutto ciò. Quello che spero ora è che dalle tante belle parole emergano anche fatti altrettanto piacevoli, spero inoltre che chi è stato scelto per rappresentare gli elettori del m5s in parlamento riescano ad uscire dall'ombra di Grillo e a camminare con le proprie gambe raccogliendo il testimone del fondatore e facendolo proprio, in modo indipendente.

Oltre a questo avrei dovuto scrivere del nostro espatrio in terra francese, di come sia la situazione lavorativa per un laureato al di fuori dei confini nazionali e di come viva un cittadino fiero delle proprie istituzioni, ma ci sarà tempo e troverete presto un nuovo post sull'argomento.

Fabrizio Ruffini