domenica 7 ottobre 2012

Mar gh'era




Qualche giorno fa sono stato con la mia Vespa (o Star per i puristi) nella zona industriale di Porto Marghera perché era un po' che volevo realizzare un piccolo reportage fotografico sul degrado e l'abbandono di quello che per decenni è stato lo sporco cuore pulsante della famosa "locomotiva del nord-est". Ahimè quello che mi si è presentato davanti è stato esattamente ciò che mi aspettavo: tutta l'area del porto e le ex zone paludose strappate alla natura nei primi anni del '900 per far posto a quell'industria tanto invocata dal potere veneziano, che dovette espandere la propria influenza sulla terra ferma per placare la sua voglia di condotte forzate e ciminiere, si è concessa lentamente tra la nebbia del mattino in tutto il suo squallore non offrendo altro che capannoni smembrati, parcheggi vuoti e ciminiere senza sbuffi.
Ma lo squallore in questo caso, va precisato, non è dato tanto dall'ammasso di ferraglia, cemento, cavi e binari a perdita d'occhio, quanto piuttosto dal fatto che tutto ciò sia li, arrugginito, maltenuto, vuoto e spettrale.

Quando il grande complesso fu inaugurato, infatti, con buona pace dell'ambiente, fu una manna portatrice di lavoro che richiamò nella nuova frazione chiamata Marghera migliaia di famiglie che poterono finalmente coronare il sogno di un salario a fine mese ed una casa vera in cui vivere.
Si dice che il nome Marghera derivi dall'antico modo di dire veneziano Mar gh'era, ossia "il mare c'era, era qui" per via di canali d'acqua marina che arrivavano fino al suo territorio dalla laguna, interrati successivamente per costruire gli edifici. Questo aneddoto penso possa andar bene anche oggi se al posto del mare pensiamo il lavoro. Un lavoro che sembra essere stato anch'esso interrato per sempre, immobilizzato e smembrato da politiche economiche subdole e scriteriate che compiono un imbarazzante calcolo di profitti tra macchinari ed operai e senza alcuno scrupolo decidono di punto in bianco di vendere, dislocare all'est(ero) dove quegli stessi operai valgono ancora meno o semplicemente di chiudere.

Proprio in questi giorni alcuni operai di una delle tante aziende in crisi del polo (la Vinyls, articolo) sono saliti sul campanile di San Marco per protestare contro l'illusione di un salario che non arriva da mesi e le continue prese in giro dei datori di lavoro.
Queste cose oramai le si leggono ovunque tutti i giorni e come sempre si rischia di diventare lettori vaccinati e di passare oltre senza dar troppo peso ai problemi altrui, già pressati come siamo dai nostri. Invito tutti caldamente, però, a farsi un giro in questo tipo di realtà per poter aprire gli occhi e restare basiti difronte a scene che non stonerebbero in un film neorealista del secondo dopoguerra: prostitute minorenni e sempre più di nazionalità italiana, moglie e marito che pescano in un canale pieno di fosfati che passa vicino al petrolchimico come se dall'abboccare di qualcosa dipendesse la loro esistenza (cosa che non stenterei a credere), sciami di lavoratori in attesa del solito giro di caporalato,  immondizia, facce stanche e sfiduciate, brandelli di bandiere di gruppi sindacali che sventolano appesi a cancelli ormai chiusi per sempre.

Questo tour dantesco lo consiglierei soprattutto a chi fissa appuntamenti in hotel di lusso e ristoranti con gli industriali per parlare del futuro delle fabbriche dimenticando di chiedere il parere al fattore umano che in quelle fabbriche lavora e vive, a chi dovrebbe fare da difensore dei diritti dei lavoratori e vigile di imprenditori col vizio dell'espatrio e a chi promette promette e promette e poi fa sgomberare i picchetti dalla celere. A questa gente consiglierei un giretto al mattino di buon'ora a Marghera, ma anche a Taranto, a Genova o a Portovesme in Sardegna e tutti gli altri tumori di un'economia capitalista caduta in disgrazia.

Fabrizio Ruffini


Di seguito alcune foto scattate quella mattina:









 







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